Curiosità storica: la Zebedassite
Nel passato la frazione di Zebedassi ha vissuto un periodo di "splendore" grazie ad una pietra che ha preso il nome dal paese, la "zebedassite" appunto.
Essa è un minerale "fillosilicato di magnesio e alluminio" e appartiene alla famiglia delle "saponiti". E' di colore nero con venature rosa e la zona in cui si trova è sempre stata conosciuta tra la gente del posto col nome dialettale "preghe negre".
Per anni la zebedassite è stata impiegata nelle costruzioni e nelle abitazioni locali, ma il suo più redditizio impiego si è avuto agli inizi del ‘900 quando venne aperta una cava dove la pietra veniva tagliata in blocchi e trasportata faticosamente con i cavalli a valle. Da qui partiva per varie destinazioni, anche estere. Più avanti, per facilitare il trasporto a valle delle lastre di minerale venne costruita una teleferica (vedere illustrazione), ancora oggi ben visibile. Si tratta di quella curiosa costruzione collocata sulla strada provinciale n. 100 Tortona-Caldirola appena prima della frazione Sighera.
M.L.
M.L.
M.L.
Riportiamo l'articolo “Il posto delle pietre nere in Val Curone” di Italo Cammarata, pubblicato sul n. 73 del periodico “Oltre”, gennaio/febbraio 2002
Che a sud di Volpedo ci fosse un affioramento di rocce scure era ben noto fin dal Medioevo; quando nel 1234 il Comune di Tortona decise di far costruire una roggia che portasse le acque del Curone fino a Viguzzolo, già esisteva più a monte di Volpedo una chiusa che deviava la corrente dell'acqua verso i mulini e i prati di Volpedo proprio nella località che si chiamava “preghe negre”, cioè “le pietre nere”. E' un posto che gli anziani del posto ben ricordano ancora con questo nome e che si trova all'altezza del chilometro 6 della Strada Provinciale n. 100 fra Monleale e la frazione Sighèra di Montemarzino, proprio in corrispondenza di una costruzione recente dove si vendono materiali per l'edilizia. Davanti a questa costruzione, quasi al bordo della strada, l'automobilista frettoloso non nota nemmeno una specie di grosso pilastro, di cui a prima vista non si riesce a capire la funzione. Ebbene quel pilastro era la base di arrivo di una teleferica che per anni ha portato a valle le rocce nere estratte in una cava che sorgeva in alto, sulla riva opposta del Curone, al confine fra il territorio di Volpedo e la frazione Zebedassi di Montemarzino. “Proprio da questo Zebedassi ha preso il nome questo raro minerale che è stato chiamato Zebedassite, dice GianCamillo Cortemiglia, professore di geografia fisica all'Università di Genova. “Si tratta di un fillosilicato di magnesio e alluminio, della famiglia delle saponiti”. I documenti che abbiamo trovati a Volpedo lo definiscono anche “serpentino”. Tutti quanti nella zona ignorano beatamente questa piccola gloria locale.
Tutto è avvenuto non più di 70 anni fa ma i ricordi svaniscono così velocemente che i fatti sono diventati quasi leggenda. Tanto che è stato difficile ricostruirli pur avendo a disposizione un nipote dello scopritore-valorizzatore di quella cava, l'archivio comunale di Volpedo e qualche vegliardo di buona (?) memoria.
Ecco la storia:
Ludovico Pizzocaro, classe 1877, faceva il mezzadro in zona Benvenuti fuori Voghera ma la sua attività più redditizia era quella di terzista (allora sarebbe stata un'offesa chiamarlo così) che consisteva nell'eseguire lavori per le ricche cascine dell'Oltrepò, specialmente nella stagione della mietitrebbiatura e dell'aratura. La sua grande passione era la caccia che lo spingeva lontano da casa fino alla prime colline dell'Appennino. Proprio qui un giorno, risalendo le creste sopra Volpedo notò in contrada Casanova un potente affioramento di roccia scura che presentava venature interessanti. Incuriosito da un ritrovamento così insolito per questa zona, fece fare qualche sondaggio che confermò la presenza di una vena di pietra che sembrava promettere bene. Il posto può apparire oggi fuori dal mondo; invece si trova su un percorso pedonale un tempo battutissimo che da Volpedo conduceva verso Momperone e l'alta Valle Curone passando per Zebedassi quando ancora non era stata costruita la attuale “provinciale” e quando nelle strette della località Barca le rive del Curone erano ancora così ripide e infossate che non era troppo salutare avventurarvisi, specialmente con i muli bizzosi. Non stiamo parlando del Medioevo ma dei primi anni dell'Ottocento.
Pizzocaro vide l'affare, acquistò il terreno e ottenne il diritto di passaggio su quelli limitrofi per potervi arrivare; poi fece intervenire una impresa specializzata di Massa Carrara che aprì una cava e istallò i macchinari per tagliare la roccia con il filo elicoidale e per spostare i blocchi che così venivano ottenuti.
Gli anni sono gli Anni 20. Infatti in una “Statistica mineraria” del 1926 del Comune di Volpedo Carlo Pizzocaro denunciava già di impiegare 1 motore elettrico e 6 operai adulti per 200 giorni all'anno. In pochi anni la collina boscosa si animò delle voci dei cavatori e del rumore dei carri che i potenti cavalli da tiro trascinavano fin lassù a caricare il materiale. I blocchi finivano a Tortona per essere lavorati e da lì prendevano le strade più diverse, fino ad arrivare in Francia e in Belgio.
Martino Galli, che rappresenta a Tortona l'ultima generazione di mastri comacini, li ricorda bene quei blocchi che i carri scaricavano alla bottega dei suoi in corso Alessandria: “Era un materiale non maturo”, dice nel suo gergo pietroso, “un po' grasso, e difficile da lavorare in lastre di piccolo spessore perché si rompeva con facilità...Noi ne facevamo zoccoli, lastroni da camino, basi di monumenti funebri che si possono tranquillamente vedere ancora nei cimiteri qui attorno. Ma la pietra non era abbastanza compatta, nemmeno i blocchi di pietra rosa che ogni tanto venivano fuori in mezzo agli altri”.
Intanto la febbre delle miniere aveva contagiato un operatore del settore edilizio, Antonio De Agostini di Castelnuovo, che aprì un'altra cava più in basso, sempre sulla stessa riva del torrente. Il materiale scavalcava il Curone mediante una piccola teleferica di cui rimangono ancora alcuni spuntoni nel terreno. Questo De Agostini che si inserisce nella nostra storia fu a suo tempo un personaggio conosciutissimo nella valle Curone, che egli con i suoi carri riforniva della famosa calce viva di Varzi.
Ma nemmeno lui riuscì ad arricchire con la zebedassite. Quando si capì che la roccia non aveva un grande avvenire nell'edilizia, si pensò a “spezzare le rocce per ricavarne pietrame ad uso di massicciate stradali e ferroviarie”.. Lo dice un documento del 1925, che concede il permesso di usare mine “con polvere del tipo A” per ricavarne pietrisco venduto alle Ferrovie dello Stato. Proprio a questo scopo venne costruita la teleferica a cui accennavamo all'inizio per rendere più agevole il trasporto a valle. Alla cava vennero istallati anche dei binari decauville di cui rimane ancora qualche traccia.
Quando le Ferrovie smisero di investire, lo stesso pietrisco venne poi usato per i fondi stradali che sono venuti prima dell'asfalto. Nel 1934 una Società Industrie Elettriche Torino chiese e ottenne il permesso di usare l'esplosivo cheddite per fare “degli assaggi in galleria alle cave di Zebedassi” ma evidentemente le prove non ebbero buon esito. L'ultimo impiego della “pietra nera” fu quello per produrre le ormai scomparse “graniglie” cioé i pavimenti in conglomerato.
Intanto i cavatori della Lunigiana erano stati sostituiti da squadre di bergamaschi. Alcuni si portarono moglie e figli e si piazzavano in poche stanzette alla cascina Sighera, vicino alla strada provinciale. E' lo stesso Galli a descrivere quel modo errabondo di lavorare che oggi sarebbe impensabile: “Venivano in primavera e si fermavano fin quasi a Natale. C'erano molte squadre di questo tipo qui nella zona, come quella che in quel periodo risistemò il castello di Brignano per il conte Bruzzo, spesso andando a prendere le pietre e le rocce nei valloni dietro Frascata o forse nella cava di Zebedassi”..
Noi aggiungiamo che i tanti Lugano dispersi nella Val Curone sono gli ultimi eredi di squadre di mastri comacini che dai laghi di Lugano e di Como si spingevano fin qui già dal '500, quando l'arte edilizia era quasi sconosciuta a livello locale: molte chiese e alcune case signorili sono state costruite proprio da questi mastri che non disdegnavano di impiantare anche una fornace da mattoni per loro uso (la fornace di Brignano venne impiantata, molto più tardi, proprio da un cittadino svizzero: la storia ha sempre delle radici).
Alla cava delle pietre nere gli operai mangiavano e dormivano tutti insieme in un grande camerone ai bordi del cantiere e, quasi tutti scapoli, qualche volta organizzavano allo spiazzo alcune feste campestri a cui pare non fossero indifferenti le bellezze volpedesi. Pizzocaro gli lasciò costruire sullo spiazzo una balera con in mezzo un albero della cuccagna. Lui faceva il pendolare fra Voghera e la cava con il suo calesse tirato da una cavallina grigia e qualche volta perfino in bicicletta finché nel 1936 decise di affittare la cava al De Agostini che già conosciamo: il contratto era per nove anni.
Il destino delle due cave era ormai segnato. Tutto finì nell'immediato dopoguerra quando un incidente sul lavoro fece una vittima, un certo Giacomo della Bergamasca, saltato su una mina frettolosa.
Pizzocaro è morto nel 1951 nel modo che forse avrebbe scelto se gli fosse stato permesso: uscì per il solito giretto di caccia e non tornò più vivo a casa. Aveva 74 anni.
Italo Cammarata